Il monologo interiore

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Dopo aver trattato l’annosa questione della costruzione del personaggio, immagino siate riusciti a crearne soltanto uno: un tizio, o una tizia, che in qualche modo vi somiglia. Lungi da me volervi salvare dalla trappola dell’autobiografia, devo riconoscere che  un solo personaggio non ci consente di affrontare il tema del dialogo. È per questo che oggi parleremo del monologo interiore, croce (per chi legge) e delizia (per chi scrive) della narrazione.
Nella narrativa, il monologo interiore non è altro che un lungo pippone mentale che un personaggio potrebbe benissimo risparmiarsi. Ma è inutile biasimarlo: dobbiamo prendercela con l’autore.
Un celebre esperto di tale tecnica è – o meglio, fu – il buon Italo Svevo, non per niente passato alla storia come uno dei primi sfigati a perire in un incidente stradale (nel 1928!) alla velocità di ben passoduomochilometriorari.
Ecco a voi un celebre monologo interiore estratto da “La Coscienza di Zeno”. Non me ne vogliate, ma era il più facile da reperire con Google:
Mi colse un’inquietudine enorme. Pensai: “Giacché mi fa male non fumerò mai più, berrò il doppio”. Accesi una sigaretta e mi sentii subito liberato dall’inquietudine che mia madre mi scoprisse. Finii tutta la sigaretta con l’accuratezza con cui si compie un voto. E, sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre durante le ore di lezione. All’uscita da scuola, mio padre venne a prendermi col suo sigaro in bocca dicendomi:
– muoviti, feccia!
Bastava questa frase per farmi desiderare ch’egli se ne andasse presto, presto, per permettermi di correre alla mia sigaretta.
Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi (dopo la colite): il cagotto. Le mie giornate finirono coll’essere piene di sigarette e fughe verso il cesso.

 

Ne “La coscienza di Zeno”, il monologo interiore diventa lo strumento con cui il protagonista ricostruisce la propria esistenza, il passato, le proprie esperienze. Tutto è ordinato e consequenziale. Purtroppo per il vostro neurone residuo, leggere e comprendere un monologo interiore – nonché scriverne uno – non è sempre così semplice.
Come ben saprete nonostante non abbiate mai letto un suo libro, quel luridone di Joyce è divenuto celebre per aver portato questa tecnica all’estremo, rappresentando il cosiddetto “flusso di coscienza”, ovvero un mix di pensieri buttati lì, alla cazzo, al fine di rendere l’idea del turbinio di riflessioni, immagini e pensieri che la mente umana può rigurgitare quando meno ce lo aspettiamo.
Ecco un breve esempio di monologo interiore joyciano, tratto dall’Ulisse:
Appena parcheggiato sulla Riva Sir John Rogerson, odio i parcheggiatori abusivi. Mi serve un cric, glielo spaccherei subito in testa. Ieri sera, The Expendables al cinema con Mr Bloom, cazzo se Schwarzy è invecchiato male. La ditta Leask, produttrice d’olio di semi, le patatine fritte del pane&merda vicino al parchetto. Avrei potuto picchiarlo, anche. Non ho ancora digerito quel cazzo di kebab, ho la sensazione di accelerare il passo per non essere raggiunto dal mio alito. Rumori mattutini del lungo fiume, Lime street. Cocktail del cazzo. Presso le case popolari di Brady il garzone di un muratore beve una Peroni, fumando una cicca. Una bambinetta coi segni di un eczema sulla fronte lo occhieggia coi capelli così pieni di meches, colpi di sole e colpi di minchia che sembra uno Yorkshire. Dirgli che se fuma non crescerà. Ma fumi pure! La sua vita è e sarà comunque una merda! Aspettare fuori dalle osterie per riportare papà a casa. Torna a casa da mamma, papà. E’ dall’alba che si è attaccata al cartone del Tavernello. Ora morta; non ci sarà molta gente. Attraverso Townsend street, il cinema dei pornazzi è chiuso, ma che belle locandine!

In sintesi, gli ingredienti per realizzare un monologo interiore sono i seguenti:
pensieri, immagini e considerazioni (q.b.);
espressioni tipiche del linguaggio parlato (che è come invitarvi a cena);
prevalenza di verbi all’infinito o al presente;
ordine logico degli eventi anzi no, chiederei troppo.

Ebbene, se volete dare profondità ai vostri personaggi – o perlomeno simularla – rendeteli complessati e pipponicamente prolifici. Se nella vostra storia non siete in grado di mostrare le peculiarità degli attori attraverso il dialogo e le azioni, armatevi di cazzuola e smarmellate lunghi monologhi interiori sulle vostre sudice pagine. Critici letterari e comuni mortali apprezzeranno, ritenendo la vostra opera un toccante, indimenticabilmente indimenticabile ritratto psicologico.






Esercizio: scrivete il breve monologo interiore di uno psicopatico che crede stia arrivando la fine del mondo.


Suggerimento: lasciate andare la narrazione, buttatela lì alla Paolo Conte, per intenderci.

15 Commenti

  1. A me piacciono i monologhi interiori. Fucilatemi pure. Morirò per conservare quest idea!

    E veniamo all'esercizio…

    "Il mondo finirà e la gente si allarma, corre qua e là, pensa a come dare un senso a vite che non ne hanno mai avuto. Si dispera. Anzi, no. Ride, scherza, farnetica. Non hanno paura, loro. Certo, non ci credono a queste cose! Eh, invece dovrebbero e non dovrebbero scherzare su simili storie. Il mondo finirà e io lo so. Domani tutto sarà un ricordo e calerà il sipario sulla miseria umana. Come non esserne pienamente lieti?"

    Come sono andata?

    scrivete il breve monologo interiore di uno psicopatico che crede stia arrivando la fine del mondo.

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